“Tu non uccidere”. Romero resta segno di contraddizione

Romero

Dopo il 23 maggio 2015, festa tanto attesa per la beatificazione ufficiale di colui che già all’indomani del suo martirio, il 24 marzo 1980, è stato riconosciuto da molti come il “San Romero d’America”, è sempre attuale approfondire la storia del vescovo salvadoregno che ha segnato la coscienza di molti cristiani nel mondo. In Italia in particolare. Ad esempio, quando don Peppe Diana decide di esporsi pericolosamente sfidando il potere della camorra e dei suoi complici, a Casal di Principe in Campania nel 1994, scrive una lettera aperta che riecheggia il grido forte e inerme di Oscar Arnulfo Romero: “Per amore del mio popolo non tacerò!”.  Rivolgiamo, pertanto, alcune domande ad Anselmo Palini è autore di una biblioteca ideale di solidi e documentatissimi testi biografici sul primato della coscienza davanti al potere. Da Primo Mazzolari a Romero passando per la straordinaria vicenda di Marianella Garcia Villas, avvocato dei poveri e degli esclusi di El Salvador, per citarne alcuni.

In Romero si parla di santità di popolo. In che senso?

«El  Salvador è un Paese di martiri. Quando viene assassinata Marianella Garcia Villas, il 14 marzo 1983, ci troviamo di fronte alla vittima civile n. 43.337 dalla data del golpe militare del 1979. E finché Oscar Romero è in vita, il Salvador non conosce la guerra civile, che inizia proprio all’indomani della sua morte e si protrae fino al 1992, con quasi 80 mila vittime su una popolazione che allora contava meno di quattro milioni di abitanti. L’assassinio di Romero eliminò la principale voce che in Salvador si opponeva alla violenza e intendeva trovare una soluzione pacifica ai problemi del Paese. La beatificazione di Oscar Romero riassume in sé in un certo senso il martirio di tutte le altre migliaia di persone – catechisti e delegati della parola, leader politici e sindacali, preti e suore, campesinos e operai – che hanno pagato con la vita il loro desiderio di un mondo più giusto e umano».

Il vescovo martirizzato aveva compiuto una scelta nonviolenta di carattere personale, ma nel complesso del suo agire non si può trarre una legittimazione della  resistenza armata verso un potere violento e inumano?

«L’opera di evangelizzazione e promozione umana di Romero , oggi riconosciuta dalla Chiesa e posta come esempio da seguire, trovò ostacoli enormi. Fu osteggiata violentemente dal potere politico e da quello economico. Le stesse forze della guerriglia rivoluzionaria ad un certo punto lo indicarono come un proprio nemico, poiché invitava tutti alla conversione e condannava ogni forma di violenza, anche quella rivoluzionaria, esortando a percorrere le strade della nonviolenza». 

Quale situazione si trovò a dover affrontare?

«In Salvador negli anni di Romero era presente una violenza istituzionalizzata, impersonata dall’oligarchia economica che controlla tutto il Paese, supportata da una violenza repressiva attuata dalle Forze Armate e dai tanti gruppi paramilitari e squadroni della morte impegnati contro le forze di opposizione e i contadini sindacalizzati. Accanto a queste vi era  la violenza rivoluzionaria, che ha le proprie radici in una situazione di oggettiva ingiustizia sociale. La violenza rivoluzionaria, la lotta disperata e violenta di uomini oppressi, è il prodotto della violenza istituzionalizzata».

Come affrontò  questo dramma la popolazione cristiana?  

«In America Latina, e anche in Salvador, per opporsi all’ingiustizia legalizzata, alcuni credenti, e anche dei sacerdoti, scelgono la strada della lotta armata, rifacendosi alla Populorum progressio di Paolo VI, in particolare là dove si dice: “E tuttavia sappiamo che l’insurrezione rivoluzionaria – salvo il caso di una tirannia evidente e prolungata che attenti gravemente ai diritti della persona e nuoccia in modo pericoloso al bene comune del Paese – è fonte di nuove ingiustizie, introduce nuovi squilibri e provoca nuove rovine. Non si può combattere un male reale a prezzo di un male più grande”».

 Come interpretò Romero questo passo dell’enciclica?

«Per Romero le condizioni che rendono possibile una rivolta armata, come previsto dall’inciso nel testo di Paolo VI, sono inesistenti nella realtà, anche e soprattutto in considerazione del fatto che le conseguenze sarebbero devastanti soprattutto per la popolazione. Nello stesso tempo è cosciente del fatto che, finché non si rimuove l’ingiustizia, è estremamente difficile realizzare condizioni di pace. Si tratta dunque, secondo l’arcivescovo di San Salvador, di trovare un’altra strada per risolvere i problemi del Paese. La scorciatoia della violenza, scelta dalle forze della sinistra rivoluzionaria, per Romero è moralmente inaccettabile; non fa altro che aumentare i problemi e offre il pretesto per la repressione di tutto il dissenso da parte delle forze di sicurezza. Di fronte al dilagare della violenza, dei rapimenti, della tortura, l’arcivescovo, basandosi sul testo evangelico, pone come riferimento assoluto il “tu non uccidere”».

Quale strada indicava in concreto il vescovo Romero?

«Da parte sua è molto chiaro che non può essere artefice di pace chi ha nel cuore il risentimento, l’odio, la violenza. La soluzione dei mali infatti è nella conversione del cuore, nell’assunzione di atteggiamenti di rispetto, di dialogo, di collaborazione, di nonviolenza. Il concetto che riassume tutto ciò, e che Romero deriva da Paolo VI, è quello della “civiltà dell’amore”.  È opportuno riportare letteralmente quanto scriveva l‘arcivescovo: «Mai abbiamo predicato la violenza, solo la violenza dell’amore, quella che lasciò Cristo inchiodato in una croce, quella che fa ciascuno per vincere i propri egoismi e perché non ci siano disuguaglianze così crudeli fra di noi. Questa violenza non è quella della spada, dell’odio. È la violenza dell’amore, della fraternità, quella che vuole trasformare le armi in falci per il lavoro»”.

Ma esiste una presa di posizione esplicita sull’interpretazione del testo della Populorum Progressio nel caso salvadoregno?

«Possiamo far riferimento alla corrispondenza relativa al tema che Paolo VI scelse  per la Giornata Mondiale della Pace del 1978: “No alla violenza, sì alla pace”. Questo testo trovò il pieno consenso di Romero. In una lettera che inviò al cardinal Baggio e al cardinal Villot, per informarli dei preparativi per tale Giornata della Pace, Romero segnalava che la Chiesa di San Salvador, benché fatta oggetto di violenze e di intimidazioni, rifacendosi al Magistero, invita tutti a non rispondere con la violenza. In un’intervista a un’agenzia di stampa, nel maggio 1979, Romero affrontava in modo esplicito il problema della risposta armata alle situazioni di ingiustizia: ”Questo problema è molto vivo nella coscienza dei cristiani salvadoregni. Io stesso ho scritto recentemente una lettera pastorale in cui trattavo la questione: certo – come dice anche Paolo VI nella “Populorum progressio” – teoricamente, quando non ci siano altre strade per ristabilire la giustizia, persino l’azione violenta in ultima analisi può essere ammessa. Ma noi diciamo che essa non è una soluzione giusta, perché dalla sua pratica può nascere un’autentica “mistica” della violenza, che può portare solo altri orrori. Siamo per l’opposizione non violenta e per il passaggio graduale alla democrazia, possibilmente senza spargere sangue. Certo, mi rendo conto che la situazione del mio Paese è esplosiva, e questo non perché la Chiesa si vuole per forza opporre al regime, ma perché è il regime che si è messo contro il popolo”.  Quindi la violenza, anche quella rivoluzionaria, provoca, secondo Romero, solamente inutili spargimenti di sangue, rende impossibile ogni forma di dialogo e crea una spirale incontrollabile. La violenza repressiva, fornita di più mezzi, si manifesta in modo più diffuso e brutale di quella rivoluzionaria; tuttavia accade che l’una susciti l’altra. La giustizia può essere raggiunta solo per vie pacifiche, non tramite l’uso della violenza. Romero è in contatto e in dialogo sia con le forze governative sia con quelle rivoluzionarie: ad entrambe spiega la propria posizione e cerca di convincerle ad abbandonare la violenza e imboccare una strada diversa per il bene del Paese». 

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